La storia del conflitto israeliano palestinese

In questi giorni molti sono tentati di dare la propria opinione sul conflitto israeliano-palestinese, fomentati dall’ultimo grave episodio di Gaza. Purtroppo la situazione è complessa e non tutti hanno la preparazione sufficiente a poter esprimere un giudizio, spesso dato sull’emozione degli ultimi avvenimenti.

Ma quale è la storia di questo conflitto, che vede in entrambi le parti in causa delle ragioni e dei tori?

Vediamo la storia del conflitto Israele Palestina ripercorrendo le tappe storiche dal secolo scorso ai giorni nostri.

mappa israele palestina

La storia del conflitto israelo-palestinese è lunga e complessa, e non può essere riassunta in poche righe. Tuttavia, cercherò di fornire una panoramica generale dei principali eventi e delle cause che hanno portato alla situazione attuale.

Il conflitto ha origine alla fine del XIX secolo, quando il movimento sionista, nato in Europa in risposta all’antisemitismo, inizia a promuovere l’immigrazione degli ebrei in Palestina, una regione allora sotto il dominio dell’Impero Ottomano. La Palestina era abitata da popolazioni arabe musulmane, cristiane ed ebree, che convivevano pacificamente. Con la prima guerra mondiale, l’Impero Ottomano si sfalda e la Palestina passa sotto il controllo britannico. Nel 1917, il governo britannico emette la dichiarazione Balfour, che riconosce il diritto degli ebrei a stabilire una “dimora nazionale” in Palestina. Questo provoca il malcontento degli arabi, che vedono minacciata la loro sovranità sul territorio.

Negli anni successivi, l’immigrazione ebraica in Palestina aumenta, soprattutto a causa della persecuzione nazista e dell’Olocausto. Gli ebrei acquistano terreni e fondano insediamenti agricoli e urbani. Gli arabi reagiscono con proteste e violenze, che vengono represse dalle autorità britanniche. Nel 1936-1939, scoppia la grande rivolta araba, che chiede la fine del mandato britannico e la creazione di uno Stato arabo indipendente. La rivolta viene soppressa con la forza, ma i britannici sono costretti a limitare l’immigrazione ebraica con il Libro Bianco del 1939.

Nel 1945, terminata la seconda guerra mondiale, la questione palestinese diventa un problema internazionale. Gli ebrei sopravvissuti all’Olocausto cercano rifugio in Palestina, ma incontrano l’opposizione dei britannici e degli arabi. Il movimento sionista organizza attacchi terroristici contro le forze britanniche e gli obiettivi arabi. Nel 1947, i britannici rinunciano al mandato e affidano la questione all’ONU. L’ONU propone un piano di partizione della Palestina in due Stati: uno ebraico e uno arabo, con Gerusalemme sotto amministrazione internazionale. Il piano viene accettato dagli ebrei, ma rifiutato dagli arabi.

Il 14 maggio 1948, scade il mandato britannico e gli ebrei proclamano lo Stato di Israele. Il giorno dopo, i paesi arabi limitrofi (Egitto, Giordania, Siria, Libano e Iraq) attaccano Israele, dando inizio alla prima guerra arabo-israeliana. La guerra si conclude nel 1949 con la vittoria di Israele, che ottiene più territori di quelli previsti dal piano di partizione. La Giordania occupa la Cisgiordania e Gerusalemme Est, mentre l’Egitto occupa la Striscia di Gaza. Circa 700 mila palestinesi sono costretti a fuggire dalle loro case e diventano rifugiati nei paesi vicini.

Nel 1956, scoppia la crisi di Suez, quando Israele invade il Sinai egiziano con il sostegno di Francia e Regno Unito, che vogliono riconquistare il controllo del canale di Suez nazionalizzato dal presidente egiziano Nasser. L’intervento delle Nazioni Unite costringe Israele a ritirarsi dal Sinai in cambio della libertà di navigazione nel golfo di Aqaba.

Nel 1964, nasce l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che riunisce vari gruppi armati palestinesi con l’obiettivo di liberare la Palestina dal dominio israeliano. L’OLP compie attacchi contro Israele dal territorio giordano.

Nel 1967, Israele lancia un attacco preventivo contro i paesi arabi, che stavano mobilitando le loro truppe lungo i confini. In sei giorni, Israele conquista il Sinai, la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, Gerusalemme Est e le alture del Golan. Questa guerra è nota come la guerra dei sei giorni. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approva la risoluzione 242, che chiede il ritiro israeliano dai territori occupati e il riconoscimento del diritto di tutti gli Stati della regione a vivere in pace e sicurezza.

Nel 1970, l’OLP viene espulsa dalla Giordania dopo aver tentato di rovesciare il re Hussein. Questo episodio è noto come Settembre Nero. L’OLP si trasferisce in Libano, da dove continua la sua lotta contro Israele.

Nel 1973, i paesi arabi lanciano un attacco a sorpresa contro Israele nel giorno della festa ebraica dello Yom Kippur. La guerra dura tre settimane e si conclude con un cessate il fuoco negoziato dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica. La guerra del Kippur dimostra che Israele non è invincibile e apre la strada a un processo di pace.

Nel 1974, l’OLP ottiene il riconoscimento dell’ONU come rappresentante legittimo del popolo palestinese. Il suo leader, Yasser Arafat, pronuncia un discorso all’Assemblea Generale dell’ONU in cui dichiara di portare “un ramo d’ulivo e un fucile da combattente della libertà” e chiede una soluzione pacifica del conflitto.

Nel 1977, il presidente egiziano Anwar Sadat compie una storica visita in Israele, dove tiene un discorso al parlamento israeliano (Knesset) in cui propone la pace in cambio del ritiro israeliano dal Sinai. L’anno dopo, con la mediazione del presidente americano Jimmy Carter, Sadat e il primo ministro israeliano Menachem Begin firmano gli accordi di Camp David, che prevedono il ritorno del Sinai all’Egitto e l’autonomia dei palestinesi nei territori occupati. Per questo gesto, Sadat e Begin ricevono il premio Nobel per la pace nel 1978. Tuttavia, gli accordi sono osteggiati dagli altri paesi arabi e dai palestinesi, che li considerano una resa agli interessi israeliani. Nel 1981, Sadat viene assassinato da un gruppo islamico radicale.

Negli anni ’80, la situazione nei territori occupati si fa sempre più insostenibile per i palestinesi, che subiscono le restrizioni imposte dall’amministrazione militare israeliana e la pressione degli insediamenti ebraici. Nel 1982, Israele invade il Libano per distruggere le basi dell’OLP. Durante l’occupazione israeliana, avvengono due massacri nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila, perpetrati dalle milizie cristiane libanesi alleate di Israele. L’OLP è costretta a lasciare il Libano e a stabilirsi a Tunisi.

Nel 1987, scoppia la prima intifada (sollevazione), una rivolta popolare dei palestinesi nei territori occupati contro l’occupazione israeliana. L’intifada si caratterizza per l’uso di pietre, molotov e scioperi da parte dei palestinesi, e per la repressione violenta da parte delle forze israeliane.

Nel 1991, dopo la fine della guerra fredda e della guerra del Golfo, si tiene a Madrid una conferenza di pace tra Israele e i paesi arabi. La conferenza apre la via a negoziati bilaterali tra Israele e i suoi vicini (Siria, Libano, Giordania) e multilaterali su temi regionali (acqua, rifugiati, sicurezza).

Tuttavia, i progressi sono scarsi e i palestinesi non sono rappresentati direttamente dall’OLP. Questa situazione porta a dei negoziati segreti tra Israele e l’OLP, che sfociano negli accordi di Oslo, firmati nel 1993 a Washington dal primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e dal leader dell’OLP Yasser Arafat, con la mediazione del presidente americano Bill Clinton. Gli accordi prevedono il riconoscimento reciproco tra Israele e l’OLP, il ritiro parziale delle forze israeliane dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania, e la creazione di un’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) con poteri limitati di autogoverno. Gli accordi stabiliscono anche una tabella di marcia per negoziare una soluzione definitiva del conflitto entro il 1999, basata sui principi della risoluzione 242. Per questo passo storico, Rabin e Arafat ricevono il premio Nobel per la pace nel 1994.

Gli accordi di Oslo suscitano grandi speranze di pace, ma anche forti opposizioni da entrambe le parti. I gruppi estremisti palestinesi, come Hamas e la Jihad Islamica, rifiutano gli accordi e intensificano gli attacchi suicidi contro Israele. I coloni e i nazionalisti israeliani accusano Rabin di tradire la sicurezza e la terra di Israele. Nel 1995, Rabin viene assassinato da un estremista ebreo durante una manifestazione per la pace. Il suo successore, Shimon Peres, prosegue il processo di pace e firma con Arafat gli accordi di Oslo II, che ampliano l’area di competenza dell’ANP.

Nel 1996, si tengono le prime elezioni palestinesi, che vedono la vittoria di Arafat come presidente dell’ANP e del suo partito, al-Fatah, come maggioranza nel Consiglio Legislativo Palestinese. Nello stesso anno, si tengono le elezioni israeliane, che portano al potere il leader del Likud, Benjamin Netanyahu, un oppositore degli accordi di Oslo. Netanyahu rallenta il ritiro israeliano dai territori occupati e promuove la costruzione di nuovi insediamenti ebraici. Nel 1997, si tiene a Hebron un summit tra Netanyahu e Arafat, che conclude con un accordo per il ritiro parziale delle forze israeliane dalla città sacra per entrambe le religioni.

Nel 1998, si tiene a Wye River un altro summit tra Netanyahu e Arafat, con la mediazione del presidente americano Bill Clinton. Il summit produce un accordo per il trasferimento di ulteriori territori alla ANP in cambio della lotta al terrorismo palestinese. Tuttavia, l’accordo non viene attuato completamente a causa delle difficoltà politiche interne sia in Israele che in Palestina.

Nel 1999, si tengono nuove elezioni in Israele, che portano alla vittoria del leader laburista Ehud Barak, un sostenitore del processo di pace. Barak riprende i negoziati con Arafat e cerca anche di raggiungere un accordo con la Siria sulle alture del Golan. Nel 2000, si tiene a Camp David un summit tra Barak, Arafat e Clinton, che mira a trovare una soluzione definitiva del conflitto basata sulla formula “terra in cambio di pace”. Il summit affronta le questioni più spinose: lo status finale dei territori occupati, il destino dei rifugiati palestinesi, il controllo di Gerusalemme e dei luoghi santi. Tuttavia, il summit fallisce per la mancanza di consenso su questi punti.

Pochi mesi dopo il fallimento di Camp David, scoppia la seconda intifada (al-Aqsa), una nuova ondata di violenza tra palestinesi e israeliani. La scintilla è la visita del leader del Likud Ariel Sharon alla spianata delle moschee (o monte del Tempio), il luogo più sacro per gli ebrei e il terzo più sacro per i musulmani. La visita viene vista dai palestinesi come una provocazione e scatena una serie di scontri, proteste, attentati e raid militari che causano migliaia di vittime da entrambe le parti.

Nel 2001, Sharon vince le elezioni in Israele e diventa primo ministro. Sharon adotta una politica di dura repressione dell’intifada e di isolamento di Arafat, che viene confinato nella sua sede (mukata) a Ramallah. Nel 2002, Israele lancia l’operazione Scudo Difensivo, che consiste nell’occupazione militare delle principali città palestinesi e nell’assedio della mukata. L’operazione provoca forti condanne internazionali e una crisi umanitaria nei territori occupati.

Nel 2003, il Quartetto per il Medio Oriente (Stati Uniti, Russia, Unione Europea e ONU) propone la Road Map, un piano di pace basato sulla creazione di due Stati, Israele e Palestina, che vivano fianco a fianco in pace e sicurezza. Il piano prevede tre fasi: la fine della violenza e delle attività ostili, la creazione di un’entità palestinese provvisoria con attributi statali, e la negoziazione dello status finale. Il piano viene accettato sia da Israele che dall’ANP, ma non viene attuato a causa della mancanza di fiducia reciproca e della persistenza degli ostacoli sul terreno.

Nel 2004, Arafat muore per cause misteriose nella sua mukata. Gli succede come presidente dell’ANP Mahmoud Abbas (Abu Mazen), un moderato favorevole al dialogo con Israele. Abbas cerca di riformare l’ANP e di fermare la violenza armata dei gruppi estremisti palestinesi.

Nel 2005, Sharon annuncia il suo piano di disimpegno unilaterale dalla Striscia di Gaza e da quattro insediamenti in Cisgiordania. Il piano prevede il ritiro delle forze israeliane e lo smantellamento degli insediamenti ebraici dalla Striscia di Gaza, che viene consegnata all’ANP. Il piano viene attuato tra agosto e settembre del 2005, nonostante le proteste dei coloni e dei loro sostenitori. Tuttavia, Israele mantiene il controllo dei confini, dello spazio aereo e delle acque territoriali della Striscia di Gaza.

Nel 2006, si tengono le seconde elezioni palestinesi, che vedono la vittoria sorprendente del movimento islamico Hamas, che non riconosce Israele e si oppone agli accordi di Oslo. Hamas forma un governo guidato da Ismail Haniyeh, ma non ottiene il riconoscimento internazionale a causa del suo rifiuto di riconoscere Israele, rinunciare alla violenza e accettare gli accordi precedenti. Il governo di Hamas viene boicottato da Israele e dai paesi occidentali, che sospendono gli aiuti economici all’ANP. La situazione si aggrava con la ripresa degli attacchi con i razzi Qassam da parte di Hamas contro Israele e con le operazioni militari israeliane contro la Striscia di Gaza.

Nel 2007, si tenta di formare un governo di unità nazionale tra Hamas e al-Fatah, ma il tentativo fallisce a causa delle divergenze politiche e delle tensioni sul terreno. Scoppia una guerra civile tra le due fazioni palestinesi, che si contendono il controllo della Striscia di Gaza e della Cisgiordania. La guerra si conclude con la vittoria di Hamas nella Striscia di Gaza e la sconfitta di al-Fatah nella Cisgiordania. Si crea così una spaccatura tra i due territori palestinesi, governati da due entità rivali.

Nello stesso anno, si tiene ad Annapolis un summit tra il presidente americano George W. Bush, il primo ministro israeliano Ehud Olmert e il presidente palestinese Mahmoud Abbas. Il summit rilancia il processo di pace basato sulla soluzione dei due Stati e sulla Road Map. I tre leader si impegnano a raggiungere un accordo entro la fine del 2008, ma i negoziati non producono risultati concreti a causa delle difficoltà politiche interne sia in Israele che in Palestina, e della continua violenza sul terreno.

Nel 2008, Israele lancia l’operazione Piombo Fuso, una massiccia offensiva militare contro la Striscia di Gaza, con l’obiettivo di fermare gli attacchi con i razzi di Hamas. L’operazione dura tre settimane e provoca oltre 1.400 morti palestinesi e 13 morti israeliani. L’operazione suscita forti critiche internazionali per le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario.

Nel 2009, si tengono nuove elezioni in Israele, che vedono la vittoria del leader del Likud Benjamin Netanyahu, che torna a essere primo ministro. Netanyahu forma un governo di coalizione con partiti di destra e religiosi, che si oppongono alla soluzione dei due Stati e sostengono la colonizzazione dei territori occupati. Netanyahu dichiara di accettare la soluzione dei due Stati, ma pone delle condizioni che rendono impossibile il dialogo con i palestinesi, come il riconoscimento di Israele come Stato ebraico e la rinuncia al diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Nel 2010, si tiene a Washington un summit tra il presidente americano Barack Obama, il primo ministro israeliano Netanyahu e il presidente palestinese Abbas. Il summit rilancia i negoziati diretti tra Israele e Palestina, ma questi si interrompono dopo poche settimane a causa della scadenza della moratoria parziale sulla costruzione di insediamenti ebraici in Cisgiordania decisa da Israele. I palestinesi chiedono il congelamento totale degli insediamenti come condizione per riprendere i negoziati, ma Israele rifiuta.

Nel 2011, scoppia la primavera araba, una serie di rivolte popolari che portano al rovesciamento di diversi regimi autoritari nel mondo arabo. La primavera araba cambia lo scenario geopolitico della regione e crea nuove sfide e opportunità per il processo di pace. In particolare, l’Egitto, che era un alleato strategico di Israele, diventa più vicino ai palestinesi dopo la caduta del presidente Hosni Mubarak.

Nello stesso anno, Hamas e al-Fatah firmano un accordo di riconciliazione nazionale, che prevede la formazione di un governo tecnico di unità nazionale e la preparazione di nuove elezioni palestinesi. L’accordo viene ostacolato da Israele e dagli Stati Uniti, che considerano Hamas un’organizzazione terroristica.

Sempre nel 2011, i palestinesi lanciano una campagna diplomatica per ottenere il riconoscimento internazionale del loro Stato. Il presidente Abbas presenta una richiesta formale all’ONU per l’ammissione della Palestina come membro a pieno titolo dell’organizzazione. La richiesta viene bloccata dal veto degli Stati Uniti nel Consiglio di Sicurezza. Tuttavia, l’Assemblea Generale dell’ONU approva una risoluzione che riconosce la Palestina come Stato osservatore non membro.

Nel 2012, Israele lancia l’operazione Colonna di Nuvola, una nuova offensiva militare contro la Striscia di Gaza, in risposta agli attacchi con i razzi di Hamas. L’operazione dura otto giorni e provoca oltre 160 morti palestinesi e sei morti israeliani. L’operazione si conclude con un cessate il fuoco mediato dall’Egitto.

Nel 2013, il presidente Obama visita Israele e Palestina e annuncia una nuova iniziativa di pace basata sulla soluzione dei due Stati. Il segretario di Stato americano John Kerry si impegna personalmente a facilitare i negoziati tra le due parti, che riprendono dopo tre anni di stallo. I negoziati hanno una durata prevista di nove mesi, ma non portano a nessun accordo.

Nel 2014, Hamas e al-Fatah raggiungono un nuovo accordo di riconciliazione nazionale, che prevede la formazione di un governo di consenso nazionale e la fine della divisione tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. L’accordo viene denunciato da Israele, che sospende i negoziati con i palestinesi.

Nello stesso anno, Israele lancia l’operazione Margine Protettivo, una terza offensiva militare contro la Striscia di Gaza, in risposta al rapimento e all’uccisione di tre adolescenti israeliani da parte di militanti di Hamas. L’operazione dura 50 giorni e provoca oltre 2.100 morti palestinesi e 73 morti israeliani. L’operazione si conclude con un cessate il fuoco mediato dall’Egitto.

Nel 2015, si tengono nuove elezioni in Israele, che vedono la conferma di Netanyahu come primo ministro. Netanyahu forma un governo ancora più di destra del precedente, che include partiti che si oppongono alla soluzione dei due Stati e sostengono l’annessione di parti della Cisgiordania. Netanyahu dichiara prima delle elezioni di essere contrario alla creazione di uno Stato palestinese, ma poi ritratta dopo le critiche internazionali.

Nello stesso anno, scoppia una nuova ondata di violenza tra palestinesi e israeliani, che viene chiamata intifada dei coltelli o intifada di al-Quds. La violenza è scatenata dalla tensione attorno alla spianata delle moschee (o monte del Tempio), dove i palestinesi accusano Israele di voler cambiare lo status quo che garantisce il controllo musulmano del luogo sacro. La violenza si manifesta con attacchi individuali da parte di palestinesi armati di coltelli, pistole o auto contro civili e militari israeliani, e con la repressione da parte delle forze israeliane.

Nel 2016, si tiene a Parigi una conferenza internazionale per il Medio Oriente, che riunisce oltre 70 paesi e organizzazioni internazionali. La conferenza ribadisce il sostegno alla soluzione dei due Stati e invita le due parti a riprendere i negoziati diretti. La conferenza viene boicottata da Israele e dall’ANP, che preferiscono il dialogo bilaterale.

Nello stesso anno, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approva la risoluzione 2334, che condanna la costruzione degli insediamenti israeliani nei territori occupati come una violazione flagrante del diritto internazionale e un ostacolo alla pace. La risoluzione viene approvata con 14 voti a favore e l’astensione degli Stati Uniti, che per la prima volta non usano il loro veto per proteggere Israele. La risoluzione provoca la reazione furiosa di Israele, che accusa gli Stati Uniti di aver tradito il loro alleato.

Nel 2017, Donald Trump diventa presidente degli Stati Uniti e annuncia una svolta nella politica americana verso il conflitto israelo-palestinese. Trump dichiara di essere favorevole alla soluzione dei due Stati, ma anche ad altre soluzioni possibili accettate dalle due parti. Trump promette inoltre di trasferire l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo così la città come capitale di Israele.

Nel 2018, Trump mantiene la sua promessa e inaugura l’ambasciata americana a Gerusalemme il 14 maggio, in coincidenza con il 70° anniversario della fondazione dello Stato di Israele. La decisione viene accolta con entusiasmo da Israele e con indignazione dai palestinesi e dal mondo arabo, che considerano Gerusalemme una città sacra per le tre religioni monoteiste e una questione chiave per la pace. La decisione scatena una serie di proteste e scontri nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, che provocano oltre 200 morti palestinesi e 10 morti israeliani. Le proteste sono organizzate dal movimento della Grande Marcia del Ritorno, che chiede il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi e la fine del blocco israeliano sulla Striscia di Gaza. Le forze israeliane reagiscono con la forza letale, sparando a vista sui manifestanti. La violenza suscita la condanna della comunità internazionale, che accusa Israele di usare una forza sproporzionata e di violare i diritti umani dei palestinesi.

Nello stesso anno, Trump annuncia il suo piano di pace per il Medio Oriente, chiamato “l’accordo del secolo”. Il piano prevede la creazione di uno Stato palestinese ridotto e demilitarizzato, con una capitale in una periferia di Gerusalemme Est. Il piano concede a Israele la sovranità su Gerusalemme, sulle alture del Golan e su gran parte degli insediamenti in Cisgiordania. Il piano prevede anche investimenti economici per lo sviluppo della Palestina e della regione. Il piano viene presentato come una proposta equa e realistica, ma viene respinto dai palestinesi e da gran parte del mondo arabo, che lo considerano una violazione dei loro diritti nazionali e storici.

Nel 2019, si tengono due elezioni in Israele, a causa dell’incapacità di Netanyahu di formare un governo dopo le elezioni di aprile. Le elezioni di settembre vedono un sostanziale pareggio tra il Likud di Netanyahu e il partito Blu e Bianco di Benny Gantz, un ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano. Entrambi i leader rivendicano il diritto di formare il governo, ma nessuno riesce a ottenere la maggioranza parlamentare necessaria.

Nel 2020, scoppia la pandemia di Covid-19, che colpisce duramente sia Israele che la Palestina. La pandemia aggrava la situazione economica e sanitaria dei territori occupati, che soffrono della mancanza di risorse e infrastrutture. La pandemia mette anche in evidenza le disuguaglianze tra israeliani e palestinesi nella distribuzione dei vaccini.

Nello stesso anno, si verifica una svolta storica nelle relazioni tra Israele e alcuni paesi arabi. Sotto la spinta degli Stati Uniti, Israele firma gli accordi di Abramo con gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Sudan e il Marocco. Gli accordi prevedono il riconoscimento reciproco tra Israele e questi paesi, l’instaurazione di relazioni diplomatiche ed economiche, e la cooperazione in vari settori. Gli accordi vengono presentati come un passo avanti per la pace e la stabilità nella regione, ma vengono criticati dai palestinesi e da altri paesi arabi, che li considerano una violazione del principio della soluzione dei due Stati e un abbandono della causa palestinese.

Nel 2021, si tiene a Washington un summit tra il presidente americano Joe Biden, il primo ministro israeliano Netanyahu e il presidente palestinese Abbas. Il summit rilancia il processo di pace basato sulla soluzione dei due Stati e sulla Road Map. I tre leader si impegnano a riprendere i negoziati diretti tra Israele e Palestina, ma devono affrontare le sfide poste dalla situazione interna delle due parti, dalla pandemia di Covid-19 e dalle tensioni regionali.

Questa è la storia del conflitto israelo-palestinese fino ad oggi. Si tratta di una storia complessa e dolorosa, che ha causato molte sofferenze e ingiustizie da entrambe le parti. Si tratta anche di una storia incompiuta, che richiede ancora una soluzione giusta e duratura, basata sul rispetto reciproco e sul riconoscimento dei diritti nazionali di entrambi i popoli. Si tratta infine di una storia che riguarda non solo Israele e Palestina, ma anche il resto del mondo, che ha una responsabilità morale e politica di contribuire alla pace e alla sicurezza nella regione.

L’ultimo episodio con il rapimento dei ragazzi che partecipavano al rave musicale è avvenuto sabato 7 ottobre 2023, durante l’attacco di Hamas a Israele. Secondo le fonti, Hamas ha lanciato dei razzi dalla Striscia di Gaza verso il confine israeliano, dove si stava svolgendo il Nova Festival, un evento di musica elettronica che attirava migliaia di giovani. Dopo i razzi, alcuni miliziani di Hamas sono entrati in Israele con dei deltaplani e dei parapendii, e hanno iniziato a sparare sui partecipanti al festival. Molti ragazzi sono riusciti a fuggire in auto o a piedi, ma altri sono stati catturati e portati via dai terroristi. Alcuni video sui social mostrano le scene di panico e terrore durante l’attacco. Il bilancio è di almeno 260 morti e centinaia di rapiti. Si tratta di una delle peggiori stragi nella storia del conflitto israelo-palestinese.

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